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Racconti

Codice Rosso – Sonia

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Pico 2

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Quando la vide di lontano, fu come entrare in un mondo parallelo, reale ma invisibile alla maggior parte degli uomini. Il mondo del dolore incombente, della precarietà, della fine preannunciata, della vita che si allontana. Sonia aveva trentacinque anni, una bambina di quattro, un marito. Il male l’aveva ereditato dalla madre, morta quando lei era bambina. Fino a un anno fa aveva lavorato come O.S.A. all’ospedale cittadino; aveva fatto anche la volontaria dell’ANPAS ed era lì che l’aveva conosciuta. Una ragazza come tante, carina, simpatica, diploma di scuola superiore, estroversa. Gli aveva raccontato la sua storia con semplicità, senza compiangimenti e senza disperazione. Tutto era iniziato la primavera precedente con forti mal di testa. Aveva eseguito una TAC; i medici, sulla base dei risultati, avevano consigliato un intervento al cervello per “accertamenti”. La diagnosi era stata infausta, anche se volutamente erano stati un po’ vaghi. Bisognava iniziare una lunga terapia, utilizzare i farmaci più adeguati al suo sistema immunitario debilitato, sottoporsi a frequenti controlli dei parametri vitali. Lei aveva capito subito che la sua situazione era grave, quando le avevano detto che non l’avrebbero sottoposta alla chemioterapia né alla radioterapia. Da troppo tempo frequentava l’ambiente dell’ospedale, per non sapere che questo significava che c’erano poche possibilità. Il suo organismo era troppo compromesso. A suo marito avevano certamente parlato con più chiarezza: alcuni fatti ne erano la prova. Lui aveva insistito per regolarizzare legalmente il loro rapporto, che prima era stato solo di convivenza, e per riconoscere la paternità della bambina. Lei era stata contenta, ma non aveva fatto domande. Della malattia cercava di parlare il meno possibile; si soffermava solo sui sintomi, cercava rimedi temporanei, si isolava nei momenti di crisi più intensa. Si rammaricava di non poter svolgere un lavoro continuativo, di non avere i requisiti per i concorsi, di non ricevere dalla società alcun aiuto per un’esistenza decorosa. Trascorreva quasi tutte le mie giornate da sola, perché Alex doveva lavorare. Avevano pochi soldi e dovevano pensare anche alla bambina. Per lei in Agosto sarebbero dovuti andare un po’ al mare. Vittorio le si rivolse scherzosamente, com’era sua abitudine coi malati: “Ciao, Sonia, posso farti arrabbiare un po’? Dai, fammi un po’ di compagnia, è un’ora che aspetto con questo malato! In sede mi avevano detto che l’appuntamento era per le 11, ma il medico è sempre al telefono! ” "Qui è normale." rispose lei con un sorriso "Bisogna avere tanta pazienza e non guardare l’orologio. Non è colpa dei medici: l’ho imparato dalla mia esperienza, devono consultarsi, valutare la situazione, decidere le terapie più appropriate." Il viso era deformato, come raddoppiato di dimensione; la pelle era opaca, le occhiaie profonde. Eppure aveva un corpo ancora giovane, grazioso e snello. Indossava una camicia di lino azzurra, che si intonava coi suoi capelli castani e con i suoi occhi chiari. L’unica luce però era quella interiore, che si trasmetteva attraverso l’espressione, i gesti, il tono della voce. Vittorio le chiese in tono confidenziale: "Come va? Ti senti meglio?” "Sono molto debole, qualche volta la testa è pesante come sotto un macigno, poi pian piano mi riprendo e posso tornare a muovermi come prima. A volte mi sembra che il mio corpo sia bloccato: la pressione è bassa, i muscoli sono flaccidi, di notte ho crampi alle gambe. Solo la faccia non fa che gonfiarsi, sembra raddoppiata.“ "Non ti danno nulla per rimediare gli effetti della cura?” "Oh, tanti consigli! Mangia così, fai passeggiate, fai ginnastica,… In realtà non lo sanno neanche loro, non sanno nulla della mia malattia, vanno avanti con protocolli sperimentali, non c’è alcuna terapia se non chirurgica.” "Come passi le tue giornate ?” "Cerco di vivere il più possibilmente una vita normale, semplice. Gioco con mia figlia, sto con mio marito. Sono calma, non ho paura. Ho raggiunto una consapevolezza: io rischio di morire, ma non più di tanti altri. Questa è la sorte di tutti. Nessuno può conoscere il domani, neanche quelli che dicono: l’anno prossimo andrò, farò, sarò... I cosiddetti “sani” mi fanno molta compassione, quando dicono così. Spesso non mi guardano affatto, come se fossi invisibile. Per loro è troppo difficile confrontarsi con me. Come parlare ad un imputato dopo che il giudice ha letto la sentenza definitiva. Però li capisco, non me la prendo con loro, perché tutto questo si comprende solo dopo averlo provato sulla propria pelle. ” La voce si era fatta un po’ più dura, le parole uscivano dalla sua bocca pesanti, lente, sofferte. Per stemperare la tensione, cercò di deviare sul concreto: "Percepisci qualche pensione?” "Nessuna. Ho una certificazione di invalidità al 50%, che non mi dà diritto ad alcuna pensione. Potrei chiedere un orario ridotto o mansioni più leggere se avessi un lavoro fisso, ma non ho i requisiti per farne domanda. E’ un circolo vizioso, posso solo ottenere lavori temporanei e poco pagati.” "Beh, non pensare al lavoro. Pensa a curarti.” "Oh, è quello che sto facendo. Io ho molta fede nelle mie possibilità, molta fede in Dio. Il nostro destino non dipende da noi e non è mai una sentenza definitiva, senza appello, come pensava quell’infermiera che dopo l’intervento mi ha messo un modulo in mano e mi ha detto: "Deve compilarlo. Ormai lei è un’invalida.” Invalida?! Io ho le mie speranze, i miei sentimenti, che fanno la differenza. Io guardo mia figlia, mio marito, i miei familiari, gli amici che mi vogliono bene e mi sento rifiorire dentro. La vita, quando è vita, è sempre “valida”. Non ci crederai, ma è proprio qui dentro, fra i malati come me, che ho trovato persone eccezionali, che mi hanno dato tantissimo. Chi convive ogni giorno con la sofferenza e il male, o impazzisce, o acquisisce una comprensione umana superiore.” "Che cosa vuoi dire? Forse che è in grado di fare coraggio a chi è nella stessa situazione?” "A volte è così, ma è anche la capacità di elevarsi sopra le disgrazie, di guardare le cose da un altro punto di vista, di sentirsi consapevolmente partecipi dell’umanità. Ti accorgi che la tua vita così fragile, così insignificante, viene ad avere un senso, è parte di un tutto, ha una sua funzione insostituibile. “ Vittorio le sorrise: era commosso delle sue parole, perché era riuscita ad esprimere i suoi pensieri con chiarezza e semplicità. Lui non ci riusciva mai, perché nella sua testa i sentimenti erano spesso una massa disordinata, ribelle a qualsiasi disciplina. Per comunicarli sarebbe stato necessario ordinarli, sottoporli ad un schema rigido, ma lui non lo faceva mai. Si orientava benissimo così, anche se questo non lo aiutava a comunicarli agli altri. Allora si rifugiava nell’azione, perché era una persona pratica. Adesso, per esempio, tornò al suo incarico. Chiese scusa a Sonia e si informò di nuovo per la visita del paziente che accompagnava. Il medico era libero, finalmente. Avvertì i familiari che dovevano entrare con lui e incominciò a spingere la carrozzina nell’ambulatorio. Guardò ancora Sonia, per un veloce, affettuoso commiato: lei sorrise, gli disse di affrettarsi. Per un attimo restò a guardare la scena, poi si allontanò. [socialring]
Franca

Franca

Appassionata di storia, è stata insegnante di Lettere alle scuole medie dal 1975 al 2011, quando è andata in pensione.
Scrive racconti, si occupa di volontariato e ha un grande amore per le piante e i fiori.
Autodidatta nella coltivazione delle piante, si impegna a mantenere un approccio bio nella cura del giardino.
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