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Racconti

Codice Rosso – Armida

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Pico 2

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A volte si stupiva del suo attaccamento per i gesti abituali, quasi rituali, compiuti non meccanicamente, ma con un fermo sforzo di volontà e convinzione morale. Alzarsi, vestirsi, organizzare il piano di lavoro della giornata. Tutto ad ore antelucane, con lucidità, creatività, calma interiore e attenzione al generale e al particolare. Anzi, era quello il momento migliore della giornata, aperto a nuove idee, progetti e iniziative, a volte nati nei giorni precedenti da qualche vaga intuizione. Non che fossero sempre ore esaltanti; anzi, spesso bisognava finire inderogabilmente un noioso lavoro incompiuto, ma c’era sempre il conforto dell’intimità, la certezza di avere un po’ di tempo solo per sé, senza essere disturbato da nessuno, il piacere di alzarsi e di guardare fuori, di contemplare la notte e il tempo, di bersi qualcosa di caldo in santa pace. Quando arrivavano le sei dava ancora un’occhiata al tempo, poi andava in bagno a prepararsi. Tutto silenziosamente, senza svegliare nessuno. I vestiti li aveva già preparati la sera precedente: divisa coi distintivi, calze e scarpe antinfortunistiche. La giornata si preannunziava primaverile, ma avrebbe preso lo stesso il pullover. Meglio essere prudenti che prendere freddo. Alle sei e mezzo era già pronto; salutò la moglie ancora a letto, tirò fuori la bicicletta dal garage e si diresse verso la sede dell’A.N.P.A.S., distante circa due chilometri. La distanza non era tanta, ma lui ricordava con nostalgia la vecchia sede, assai più angusta e modesta, in pieno centro. Era un luogo di incontro per amici e conoscenti; molti si fermavano per ore, anche se non erano in servizio. Gli impiegati degli uffici vicini facevano una capatina, si parlava, ci si scambiava notizie. La nuova era spaziosa, funzionale, ma molto lontana dalla città. Si era circondati dalla campagna e se non ti chiamavano per un’emergenza, poteva capitare di non vedere nessuno, a parte i volontari di turno. Intanto era arrivato. Chiave, tessera magnetica che disabilitava l’allarme, controllo in bacheca dell’organigramma della giornata dalle ore 7 alle ore 13: tutto normale, come al solito. Esame del mezzo, dello zaino e dei presidi sanitari. Un piccolo sbuffo di disappunto: quando avrebbero imparato certuni ad essere un po’ più ordinati? Mise a posto tutto; presto sarebbero arrivati Vincenzo, il centralinista, e Giancarlo, il collega autista-soccorritore volontario che lo avrebbe affiancato. Li aspettò nella sala di sosta dell’equipaggio, bevendo il suo caffè mattutino e leggendo il giornale portato in precedenza dall’edicolante. Fuori albeggiava e il cielo si schiariva sempre più. Si affacciò alla porta il gatto, una vecchia conoscenza ormai; veniva dalla casa vicina, ma amava stare con loro, a farsi coccolare e lisciare nelle ore di inattività. C’erano giorni in cui non c’erano richieste di intervento e il 118 non li contattava; il più delle volte, invece, erano sempre fuori per emergenze più o meno gravi. Vittorio accettava tutto con molta calma; a lui interessava essere pronto, preparato, professionale. Era un lavoro volontario, ma proprio per questo lo aveva affrontato con estrema serietà e consapevolezza. Erano già passati molti anni, da quando aveva iniziato. Aveva sostenuto molti corsi, teorici e pratici, e vari esami. Poi era andato in pensione e aveva avuto più tempo a disposizione. Adesso curava soprattutto l’aggiornamento, per essere in grado di utilizzare al meglio la strumentazione più sofisticata: il defibrillatore, l’aspiratore dei secreti e l’erogatore dell’ossigeno. Quanto agli altri presidi, li manipolava da anni con competenza. “Dai, ci hanno chiamato!” gli disse Giancarlo. Si alzò e lo seguì. Aveva già acceso il motore e posizionato l’ambulanza nel piazzale. In un attimo partirono. Lui si mise in ascolto al radiotelefono e prese i fogli di invio. Dovevano andare a Faggiola, un posto isolato. Giancarlo guidava a velocità moderata, erano in codice giallo. “Come si chiama la strada? Tu la conosci?”chiese lui. “Vai tranquillo, ci sono stato molte volte. È un po’ fuori dalla nostra zona, ma da giovane ci abitavano dei parenti di mia moglie e conosco bene i posti. Sta’ attento solo a girare a sinistra quando trovi il cartello per Prati.” L’altro si calmò e incominciò a parlare d’altro. Anzi, delle solite cose: della figlia, della nipotina, della casa che aveva acquistato per loro, degli accordi col costruttore. Vittorio lo lasciava parlare, ma stava attento soprattutto alle informazioni del 118. Arrivarono mezz’ora dopo, ma penarono un po’ a cercare la casa. “Ma perché l’amministrazione comunale di Prati non mette i cartelli dei numeri civici sui passi delle case di campagna? Non capiscono che non possiamo entrare in tutti i cortili per leggere i numeri?” brontolò Giancarlo. “Se tu sapessi quante volte l’ho detto agli assessori di mia conoscenza! È inutile, non capiscono. Eppure non ci vuole una mente geniale! Siamo sempre noi che ci rimettiamo.” Il numero 581 corrispondeva ad una casa colonica distante una cinquantina di metri dalla strada, a cui era collegata da un sentiero ghiaiato. Non c’erano cancelli; prima si costeggiava un grande fienile, che in passato forse era stato anche una stalla, poi si arrivava ad un ampio cortile, ombreggiato da alti pioppi e tigli. Bussarono ed entrarono nell’abitazione; la porta era aperta. Chiamarono la proprietaria, utilizzando il nominativo che era stato loro comunicato. Al pianterreno era tutto in ordine: ingresso, cucina in legno un po’ vecchiotta, pavimenti in cotto. Chiamarono di nuovo, poi salirono al primo piano. La videro subito, distesa sul pavimento di una saletta in cui erano accumulate varie cassette e mobili vecchi. Una ripostiglio e una dispensa, pensò Vittorio. Accorsero vicino a lei: non si lamentava, non urlava, sopportava il dolore con grande forza; gli occhi però tradivano una grande angoscia. Vittorio esaminò la ferita: aveva il polpaccio della gamba destra lacerato profondamente. Le continuava a dire: “Am arcmand, an ciamer brisa men anvo’! È in vacanza, an al voi ubligher a gnir!” “D’accordo, signora, stia tranquilla. Il 118 ha inviato il medico con l’auto medica. Adesso le presteremo noi i primi soccorsi. Per prima cosa le immobilizzeremo la gamba. “ Nel frattempo era necessario medicare l’arto e avvolgerlo nel telo verde sterile. Presero la stecco-benda e gliela applicarono, constatando la frattura del femore. Giancarlo trascrisse i parametri della pressione e della saturazione sulla scheda-paziente. “Grasie, fate pure. Am fa mel, ma agh la chev a supurter. Piuttosto, per favore, chiamate la mia vicina; a ghò da der la ciav dla ca’ e dmandergh se per piaser l’am dà un’ucieda ai galini.” “Dove sta questa vicina? Come si chiama?” “La stà in la cà prima ad questa; l’as ciama Leonilde. Per piaser, fela gnir ché.” “Come è caduta?” chiese Vittorio “Stavo sistemando dei panni nell’armadio. Ero sulla scaletta e avevo in mano una bacinella. Credevo di essere stabile, invece ho perso l’equilibrio. Cadendo, sono andata addosso a quel baule là. Ha gli angoli rinforzati di ferro … Ho messo le braccia avanti e il fagotto che avevo fra le braccia ha attutito l’urto, ma la gamba destra ci ha preso contro.  Guarda che taj…Non ho fatto l’antitetanica…” “Non si preoccupi, al Pronto soccorso riceverà tutte le cure. ” “Dio mio, coma faghia? E la valisa con la biancheria? Non è ancora qui la Leonilde?” Vittorio aveva visto Giancarlo tornare accompagnato da una donna anziana e poté rassicurarla: “ È qui, sta arrivando!” “Leonilde, vin ché! Am son fatta mel! A ghò da ander a l’ospedel!” La donna le accorse vicino con sollecitudine: “Cuma stet? Cosa possia fer? ” “Leonilde, famm un piaser: va’ nela mia cambra e porta ché la biancheria del second cassett del comò! La valisa l’è là, vedat? Su quell’armari lè. Scusa del disturbo!” “Ma cusa dit, Armida! A vag subit, sta’ chelma! “ La pressione minima era irregolare. Vittorio guardò Giancarlo: “ Arriva il dottore?” “È qui! Ecco l’auto medica!” La Fiat Scudo bianco-arancione entrò nel cortile. Il dottor Bellesia scese. Con lui c’era l’infermiera Giulia. L’anziana donna era molto pallida e debole. Adesso parlava in modo sconnesso, in delirio. Aveva il respiro affannoso, si agitava. Continuava a ripetere: “O Dio, adesa im lasaran più ster a ca’ mia! Im purtaran a la casa di riposo, con la scusa del mè ben! Leonilde, bada ai galini, am arcmand! Tin tè la cev ad cà! E s’a vin qualcun, dì’ che a son andada a cater un parent e che va tutt ben! Eh, Leonilde?” “ Sì, Armida! Fidat! “ rispondeva quella, guardando i soccorritori. Il dottor Bellesia entrò e li salutò. Si presentò alla paziente, esaminò la gamba, diede disposizioni per una flebo e un prelievo del sangue. Poi controllò il trasporto sull’ambulanza. Salì anche lui, insieme all’infermiera, e si sedette a fianco dell’inferma distesa sulla barella. Vittorio si mise al volante, Giancarlo li seguì con l’auto medica. Mentre partivano, la donna guardò la sua casa, come se fosse per l’ultima volta. Per un istante sembrò che volesse portare tutto con sé: muri, porta, alberi, fiori, erba. Poi chiuse gli occhi, e non disse più nulla. Arrivarono al Pronto soccorso dopo venti minuti e la consegnarono al personale. Armida, prima di essere portata via, li ringraziò ancora con affetto. “Siamo contenti di averla aiutata. Coraggio, Armida. Adesso pensi a guarire! “ Lei fece cenno di sì, poi la portarono a fare le lastre. Mentre tornavano, Giancarlo osservò: “Una brutta frattura, però è una donna ancora forte, nonostante l’età…” “Già” fece Vittorio “Era più preoccupata per la casa e le galline che per la gamba…” Più tardi, mentre tornava a casa in bicicletta, ci ripensò. Soprattutto ricordava lo sguardo angosciato alla casa, quando erano partiti. Era stato un addio alle cose quotidiane, considerate come esseri con un’anima. Un distacco straziante da presenze familiari, con cui la donna aveva stabilito relazioni d’amore. Forse perché era sola, pensò Vittorio. Però c’era qualcosa di più profondo, lo sentiva. Ne avrebbe parlato con Martina, per cercare di analizzare meglio la sua sensazione. Poi, come sempre, si concentrò su quello che doveva fare il pomeriggio, lamentandosi fra sé per il cumulo di incombenze. Chi diceva che la pensione era “l’età libera” era un poveretto, che non aveva capito niente della vita. A tavola, mentre mangiavano, ne aveva parlato con la moglie. Lei si era fatta spiegare bene la situazione, aveva fatto delle domande: quanti anni aveva? Era vedova? Aveva avuto figli? Poi era rimasta assorta per un po’. Alla fine, aveva dato la sua interpretazione: “È un caso tipico di evasione dalla vita e di isolamento in una nicchia apparentemente sicura, lontano dai drammi dell’esistenza. Ci si rassegna, anzi si trova un certo conforto a evitare il più possibile eventi spiacevoli o stress. È quello che certi poeti hanno cantato come l’amore per le piccole cose quotidiane, il rifiuto della storia, l’abbandono alla pace della natura.” A Vittorio l’analisi sembrò fondamentalmente giusta, ma troppo supponente. In definitiva Armida era solo una contadina, una donna semplice. Certamente non conosceva i poeti, che gliene importava della storia? Provava sentimenti elementari. Martina era sempre così: credeva che tutti dovessero farsi domande esistenziali, seguire la sua etica dura e razionale, lottare per un ideale. Invece molti non sono forti abbastanza, oppure non dimenticano i colpi bassi della vita, non ce la fanno a resistere. Secondo lui, la soluzione di Armida era umana e aveva una sua dignità. Il racconto "Armida" è stato scritto da Franca, che per noi cura la pagina Il giardino di Franca. È liberamente ispirato alle avventure di Franco (che invece cura per noi la pagina L'orto di Franco), volontario della Croce Blu di Mirandola. Dedichiamo queste pagine a tutti i volontari e ai loro pazienti. [socialring]
Franca

Franca

Appassionata di storia, è stata insegnante di Lettere alle scuole medie dal 1975 al 2011, quando è andata in pensione.
Scrive racconti, si occupa di volontariato e ha un grande amore per le piante e i fiori.
Autodidatta nella coltivazione delle piante, si impegna a mantenere un approccio bio nella cura del giardino.
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